Jean Vanier
L’anno scorso ho avuto la fortuna di conoscere e intervistare Jean Vanier, un grande esempio le cui parole ricordo con commozione. L’occasione era arrivata per la scorsa edizione de LA PIETRA SCARTATA, iniziativa annuale, promossa da Fondazione Fontana, sul tema delle fragilità intese come risorse preziose per l’intera comunità. Ogni anno i protagonisti/le protagoniste condividono i loro racconti di vita per stimolare punti di vista altri e accendere nuovi comportamenti.
È il vincitore dell’edizione 2015 del premio Templeton, uno dei più prestigiosi riconoscimenti mondiali destinati alle personalità religiose. Ad annunciarlo è stata a Londra l’omonima fondazione che promuove il premio, assegnato in passato a personalità come madre Teresa di Calcutta, Aleksandr Solzhenitsyn o Desmond Tutu. Jean Vanier è fondatore delle comunità dell’Arche, una rete di comunità divenuta in breve tempo una delle testimonianze più significative sul rispetto della dignità della vita delle persone affette da grave handicap mentale.
Laico cattolico di origine canadese, classe 1928, già giovane ufficiale di Marina, Vanier – alla ricerca di una vita evangelica al servizio della pace – nel 1964 scelse di andare a vivere a Trolsy, nella campagna francese, accogliendo nella sua casa due disabili mentali adulti. Fu l’inizio dell’esperienza dell’Arche che oggi conta ben 147 comunità residenziali in 35 Paesi del mondo. L’esperienza dell’Arche non è infatti una semplice opera assistenziale, ma un cammino che guarda ai disabili mentali come a un valore da custodire all’interno della Chiesa e della società. Quest’idea – segnata dalla scoperta quotidiana della ricchezza di tante vite concrete anche dentro questa periferia esistenziale – è al centro di oltre trenta libri che Jean Vanier ha scritto e che sono divenuti negli anni dei best-seller della spiritualità.
Proprio a partire dalla fragilità, Jean Vanier ha affrontato negli anni la domanda su che cosa significhi essere «pienamente umani». «Prima di essere cristiani, ebrei o musulmani – è stata la sua risposta anche nel messaggio di ringraziamento per il prestigioso riconoscimento -, prima di essere affetti da una disabilità visibile o invisibile, siamo tutti esseri umani con un cuore capace di amare».